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Stefano Corsi


Batistì

Casi della vita, giochi del destino, ghigno beffardo dell’imponderabile.
L’attore, in genere, entra in un personaggio e scende nella sua vicenda, nelle pieghe della sua psicologia.
A Luigi Ornaghi è accaduto l’esatto opposto: di non essere attore ma di indossare un personaggio, e che il suo personaggio entrasse poi nella sua vita, aspettandolo al varco, verso la fine.

Tutto era iniziato quando lui aveva intorno ai 45 anni. Era arrivato al Cerreto, vicino a Treviglio, un regista cinematografico famoso, Ermanno Olmi. Cercava gente vera, contadini, per girare un film sulla loro vita, ambientato a fine Ottocento e da quelle parti. Procedette alle selezioni al bar dell’Acli.
Luigi Ornaghi era contadino, abitava al Cerreto e frequentava quel bar: non dovette far altro che essere se stesso. E il ruolo di protagonista fu suo: Luigi fu Batistì.

Cominciarono a girare nell’autunno del 1976. Un anno dopo, il film ebbe un clamoroso successo. Il successo imprevedibile di un lungometraggio poetico ma essenziale, recitato da attori non professionisti e in un lingua irta e basica come la loro, il dialetto della bassa bergamasca.

Luigi Ornaghi, però, non era sempre stato solo un contadino: cresciuto in cascina (prima alla Pelisa, poi, fin dall’infanzia, alla Cort del Milio), nel clima di novità e rinascita del dopoguerra si era lasciato tentare dalla fabbrica, dalle otto ore contate alla Baslini. Senza il cielo e l’aria dei campi resistette due anni. Poi tornò di dove era venuto.

Solo che nemmeno la campagna è sempre uguale a se stessa: nulla lo è. In quei febbrili decenni, la invasero tralicci e palazzi; fabbriche, circonvallazioni e automobili; e dentro casa, anche in cascina, arrivarono il frigorifero, la lavatrice, la televisione: era la modernità.

Che per lui finì poi con l’assumere il profilo inimmaginabile del mondo del cinema. Col continuarsi sotto i riflettori e di fronte alla macchina da presa.

Facile immaginare che quella parentesi fosse destinata a segnarlo. Perché non è facile tornare alla normalità, dopo che la fama ti ha sfiorato. Tanto più che la normalità di Luigi, negli anni Ottanta, era destinata a stravolgersi ancora: sempre più insidiata e isolata la campagna, mentre, nel privato, gli tramontava la famiglia di origine senza che lui se ne fosse formata una dove vivere la continuità degli affetti.

Venne così anche l’infortunio di una seconda, infelice esperienza sul set. Un set di quart’ordine. Che gli guadagnò il broncio di Ermanno Olmi e qualche ironia nel suo microcosmo.

Ma, gioco del destino, Batistì aspettava Luigi. Il personaggio attendeva il suo interprete. E non viceversa.

Nel film, lo snodo cruciale della vicenda, e la sua profonda ragione poetica, sta nel doloroso San Martino di Batistì e della sua famiglia: per fabbricare zoccoli nuovi al figlio piccolo che li ha rotti tornando da scuola, il contadino taglia un gelso padronale, e questo gli costa la crudele punizione dello sfratto.

“Sentivo di star bene in quella casa dove nulla era cambiato e che dava la sensazione che lì dentro tutto sarebbe durato per sempre”: così scrive proprio Ermanno Olmi nel suo romanzo memorialistico Ragazzo della Bovisa. E lo scrive a proposito della casa di sua nonna, a Treviglio, dove giunse ragazzo, sfollato, in tempo di guerra.

La notazione, va da sé, è bellissima: l’adolescente è reduce da un viaggio rischioso, affrontato senza genitori, e nella solida quiete di un ambiente modesto ma familiare trova un mondo così rassicurante da illuderlo della propria eterna inviolabilità.

Invece, come Batistì, tutti sappiamo che non restano per sempre, le case. O è privilegio rarissimo. L’esperienza comune le fa se mai simbolo evidente del tempo che passa, delle storie che si succedono, della vita che tutto cambia e molto trascina con sé. Le stesse stanze, vivaci oggi di esistenza (padri, madri, figli, loro amici, poster e canzoni, animali, suoni), possono nel giro di non molto svuotarsi e ridursi a regno troppo ampio e silenzioso, di due vecchiaie o di una vedovanza. O noi, più spesso, possiamo (dovere) abbandonarle.

Intorno al 2000, per un intervento di riqualificazione, Luigi Ornaghi lasciò la Cort del Milio: si trattava di pagare di più o di andarsene. Se ne andò e visse gli ultimi anni in un’altra cascina, fra Treviglio e Cassano.

Prima, però, provò a protestare, anche pubblicamente, fidando nella sua notorietà.

Cioè fidando in Batistì.

Ma, gioco del destino, era Batistì che era venuto a trovare lui; che lo attendeva al varco; che gli faceva chiudere anche il film della vita con la perdita di una casa, con una partenza amara, sotto la legge invincibile del mutamento che reca dolore.

Possiamo esserne certi: in occasione di quel suo penultimo viaggio, Luigi a Batistì pensò. Traslocò come e con il suo personaggio.


(Stefano Corsi - 2008)